La deriva del pensiero unico progressista americano che sta contagiando l’Europa
Viviamo in un’epoca nella quale non siamo più liberi. Abbiamo il timore di esprimerci perché qualcuno si arroga il diritto di giudicare, con superbia, cosa sia giusto e cosa no, a cosa dobbiamo credere e cosa dobbiamo rifuggire. Ogni opinione espressa, ogni singola norma, ogni documento aziendale, sono sottoposti all’impaziente e impietoso vaglio autoritario del pensiero unico che, se non risultano conformi, etichetta in breve l’autore inserendolo nella categoria dei “cattivi bianchi occidentali, responsabili del male”.
Heather Mac Donald, classe 1956, commentatrice politica conservatrice americana, ha dedicato il suo nuovo libro “Quando l’etnia batte il merito: come la ricerca dell’equità sacrifica l’eccellenza, distrugge la bellezza e minaccia le vite umane” ad una severa analisi critica della deriva verso il relativismo e la mediocrità dell’establishment progressista. Mac Donald lavora per il City Journal e ha vinto nel 2005 il Bradley Prize. Si è laureata con il massimo dei voti all’Università di Yale e ha conseguito, prima, un master all’Università di Cambridge, poi, un dottorato di ricerca a Stanford. I suoi scritti sono apparsi sui più importanti giornali americani come il Wall Street Journal, il Washington Post e il New York Times. È autrice di molti libri acclamati dalla critica, tra i quali vanno ricordati The Diversity Delusion e The War on Cops. Molta stima le riserva il mondo repubblicano, che ne apprezza la capacità giornalistica di smontare e smentire le tesi più folli della sinistra avvalendosi di numeri e studi statistici.
Nelle prime pagine del suo ultimo lavoro veniamo subito provocati con due considerazioni: “Nel vostro posto di lavoro ci sono troppe poche persone di colore nelle posizioni di vertice? È razzismo. Il vostro museo locale impiega troppe donne bianche? Anche questo è razzismo.”, racconto (ahimè…) di una realtà che dagli Stati Uniti ha sorvolato l’Oceano raggiungendo l’Europa. La situazione che l’autrice ci racconta è veramente fuori controllo. Dal 2020, con l’exploit delle proteste Black Lives Matter, prestigiose istituzioni americane sono state accusate di “razzismo sistemico”; qualsiasi criterio di comportamento o di risultato – nel privato o nel pubblico – che impedisce l’esatta proporzionalità etnica viene qualificato come razzista. I test di ammissione alle scuole, le aspettative di risultati scientifici nell’assegnazione di borse di studio per la ricerca sono vittime di un feroce attacco che vuole impedire, ad ogni costo, l’esistenza di un impatto disparato sulle minoranze “sottorappresentate”. Immense somme di fondi pubblici, prima destinate alla ricerca, vengono oggi impiegate in progetti politici volti a smantellare la “supremazia bianca”. Siamo vittime del pensiero unico che recita lo stesso mantra: essere bianchi significa essere razzisti, essere bianchi ci rende colpevoli. A nessuno, però, sembra interessare quanto queste scelte porteranno a conseguenze disastrose. Il senso di colpa che ci dicono di dover provare, unito all’obbligo di redenzione, hanno spinto, nel 2020, la rivista Nature a scusarsi perché le sue istituzioni sono colpevolmente “bianche, responsabili di pregiudizi nella ricerca e di ricerca”.
Mac Donald, allora, ci esorta a domandarci: “Non saranno, forse, i grandi divari di competenze a giustificare la mancanza di rappresentanza nelle istituzioni? Non saranno le importanti differenze nella punizione dei reati a spiegare la sproporzione etnica della popolazione carceraria?”, quesiti che se venissero proposti durante una discussione pubblica provocherebbero rognose beghe giudiziarie. La deriva della sinistra ha perso ogni possibile perimetro. La cancel culture assieme al politically correct, in nome di chissà quale divinità o bene superiore, rovinano, giorno dopo giorno, il mondo un tempo affidatoci dai nostri avi. È giusto, allora, vivere in una società in cui i musei e le orchestre scelgono quale opera esporre o quale musica promuovere solo in base all’etnia dell’autore? È accettabile che la commissione degli Oscar abbia deciso che il premio “best picture”, ossia “miglior film”, venga assegnato solo alla pellicola la cui trama è incentrata su un gruppo sottorappresentato oppure il cui il cast è almeno per il 30% costituito da donne, LGBTQ+ o etnie minoritarie? Non ci rendiamo conto che questi standard spacciati per “inclusivi”, non discriminatori ed egualitari alla fin fine sono solo criteri di emarginazione sociale, contrari al merito e al buon senso? Come possiamo giustificare che Il Padrino, capolavoro di Francis Ford Coppola, oggi non potrebbe vincere Oscar o che illustri uomini di Storia come Shakespeare, Eliot e Cristoforo Colombo non vengano più insegnati perché tacciati di suprematismo?
Quando l’etnia vince sul merito infrange potenti tabù. Il pensiero unico, il pensiero dell’impatto disparato sta mettendo a repentaglio il progresso scientifico, distruggendo l’ordine pubblico e avvelenando l’apprezzamento della cultura, lo studio della Storia. Finché non decideremo di combattere politicamente e culturalmente, senza esitazioni, queste scelleratezze, abbandoneremo il mondo alle tristi sorti che oscure menti stanno tessendo. Non dobbiamo piegarci dinanzi a “neolingue” di apparente inclusività, non dobbiamo temere di contrastare ideologie assennate che propugnano “valori-avalori”. Dobbiamo, invece, portare in alto i nostri cuori, le nostre vite, la storia di chi ci ha preceduto, consapevoli di quanto siano forti il nostro amore per la libertà, la nostra devozione verso la Patria.
Come scrisse Chesterton in Eretici
Fuochi verranno attizzati per dimostrare che due più due fa quattro. Spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate
Gilbert Keith Chesterton
E’ la nostra ora, è tempo dei conservatori.
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