La lezione spagnola

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Contrariamente a quanto scrivono i giornali italiani, in Spagna le elezioni le hanno vinte i conservatori.

I Popolari sono il primo partito, che cresce in termini percentuali e incassa 47 seggi più della tornata precedente staccando di 14 parlamentari i socialisti. Bene, ma non benissimo. Perché quota 176, cioè la maggioranza alle Cortes, rischia di rimanere un miraggio. Per formare un governo non basterebbero i 33 seggi della destra di Vox, probabilmente nemmeno se sommati a qualche autonomista tiepido reclutabile qua e la (qualcuno disponibile a trattare si potrebbe trovare fra l’eletto dei nazionalisti delle Canarie e fra quello della Navarra. Decisamente più difficile, pur non impossibile, ragionare con i nazionalisti baschi moderati del Pnv). Troppo poco. 

Se Alberto Nunez Feijòo piange, il premier uscente Pedro Sànchez non ride. Nemmeno lui ha i numeri per formare un Esecutivo stabile. Non gli basta la ‘spalla’ della galassia di sinistra (ben 15 sigle, compreso Podemos) che si è presentata sotto le insegne del cartello elettorale Sumar. E la strada di un accordo con gli indipendentisti radicali della sinistra catalana e basca (Erc e EH Bildu) e soprattutto di Junts – la formazione separatista dell’europarlamentare Charles Puigdemont, che giusto ieri ha ricevuto (in Belgio dove si trova in esilio) un nuovo mandato d’arresto da parte dei giudici di Madrid – è tutta in salita. 

A poche ore dal voto, quando ancora non sono ancora nemmeno terminate le operazioni di scrutinio dei voti postali, l’ipotesi del cosiddetto “bloque”, cioè lo stallo che porterebbe il Re a convocare nuovamente le urne entro la fine dell’anno, è l’ipotesi più plausibile. O, per meglio dire, quella di partenza. Perché dall’Europa, sponda Bruxelles, già soffia un venticello a suggerire di trovare una soluzione… 

In attesa che, a bocce ferme, si possa proporre un’analisi più raffinata, cerchiamo di trarre qualche lezione che ci arriva dalla Spagna.

Vasi comunicanti

La crescita dei popolari è speculare alla frenata di Vox, questo è un dato di fatto. La formazione di Santiago Abascal era reduce da un’ottima performance alle ultime elezioni amministrative e secondo molti sondaggisti avrebbe ulteriormente aumentato i consensi alle politiche, tanto da ‘obbligare’ il PP ad una alleanza. Sarebbe stata una novità, ma i risultati di domenica hanno smentito le previsioni. Il progressivo spostamento a destra della formazione di Nunez Feijòo ha in parte ‘assorbito’ i consensi sovranisti. O meglio, li ha riportati a casa, visto che Vox è nata proprio da una scissione a destra del PP. In campagna elettorale non è stata adottata una strategia di coalizione (complice anche il sistema elettorale proporzionale puro) e il saldo fra i due principali partiti è stato più o meno zero. 

Fine del populismo?

Vox è stato il principale bersaglio in queste elezioni. Da sinistra hanno sparato alzo zero sul rischio dell’’onda nera’. E di questo, in fondo, ci si può pure stupire poco. Ma al gioco si sono prestati pure giornali e politici centristi, pensando più al proprio risultato interno che non ai numeri necessari per governare. Una svista strategica nella quale talvolta è scivolato anche il centrodestra italiano, fortunatamente (almeno per ora) solo a livello locale. I post-franchisti sono andati meno bene del previsto, ma rimangono comunque il terzo partito del Paese con circa 3 milioni di voti. E con ottime prospettive per poter sfruttare la situazione che si è venuta a creare come volano alle prossime Europee. Il sovranismo forse ha vissuto momenti migliori, ma rimane uno dei protagonisti politici del Vecchio continente.

Sinistra multitasking

Forse ci si è dimenticati che al voto la Spagna ci è andata perché il Primo ministro socialista, uscito con le ossa rotte dal voto locale, ha scommesso sulle elezioni anticipate piuttosto che farsi bollire a fuoco lento dai suoi. E gli è andata bene. Il PSOE ha tenuto, incassando addirittura una manciata di seggi in più. Alla sua sinistra è nata un’alleanza di partiti minori, che ha messo insieme tutto quello che si poteva coalizzare nel comune impegno ‘antifascista’, dai comunisti ai cinquestelle in salsa iberica di Podemos. Qui – più intelligentemente – si sono fatti di meno la guerra in casa e sono stati capaci di ampliare la base di consenso, erodendo addirittura qualcosa a formazioni autonomiste molto radicate soprattutto in Catalogna e nel Paese basco. Evitata la debacle, è stato però mancato l’obiettivo più importante: avere i numeri per guidare il Paese.

Autonomisti fagocitati

La campagna anti-Vox ha finito per travolgere tutti, compresi quelli che l’hanno portata avanti. Fra questi, ci sono i partiti della variegata galassia ‘nazionalista’ iberica. Tutti insieme hanno lasciato sul campo 10 dei 24 seggi che avevano alle Cortes. Molti elettori, anche a giusta ragione spaventati da certe proposte dei post-franchisti – come quella di abolire l’insegnamento della lingua catalana, ad esempio – hanno optato per votare l’unica forza che ritenevano in grado di porre un argine al rischio di vedere gli uomini di Abascal al governo, cioè i socialisti. 

L’asso nella manica di Carles

Quasi per una sorta di nemesi, il vero ‘king maker’ del futuro assetto istituzionale spagnolo rischia di essere Carles Puigdemont, cioè l’ex presidente della Generalitat de Catalunya (fino al 2017), destituito per aver fatto celebrare un referendum indipendentista (approvato a larga maggioranza) giudicato fuorilegge dalle autorità dello Stato centrale. Eletto eurodeputato, si è visto revocare l’immunità parlamentare su pressione di Madrid, gli pende sul capo un mandato di cattura e non può mettere piede nel suo paese. Di estrazione moderata e borghese, è diventato l’alfiere dei secessionisti più intransigenti. Junts, oggi, con i suoi 7 deputati è di fatto l’ago che potrebbe far pendere la bilancia a favore di un rasseblement di centrosinistra con l’appoggio delle forze autonomiste e indipendentiste. Un sostegno per nulla scontato e soprattutto il cui prezzo sarebbe altissimo. Le prime richieste arrivate da Barcellona sono state: amnistia e autodeterminazione. Ancora più netta la capogruppo dei parlamentari catalanisti Miriam Nogueras:

Vediamo cosa offrono. Il nostro obiettivo è l’indipendenza della Catalogna, che si raggiunge attraverso il diritto di autodeterminazione e con l’amnistia per i prigionieri politici e gli esiliati.

Noi possiamo sederci a un tavolo, siamo disposti a negoziare, ma sul serio

Miriam Nogueras

Il Risiko è iniziato. Non sarà una partita facile e  breve, né tantomeno scontata. Stay tuned.

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