Ilaria Salis sarà candidata alle elezioni europee del prossimo 9 giugno per Alleanza Verdi e Sinistra. La notizia non è una ‘bomba’. Di una sua corsa per Strasburgo si parlava già da un po’. In un primo momento, sembrava fosse il Pd a volerla mettere in lista. Per lei ci sarebbe stato un posto nella circoscrizione Isole (Sicilia e Sardegna, regione di provenienza della famiglia Salis). L’ipotesi però è rapidamente tramontata, forse a causa dei troppi rischi legati a un’operazione che compatta sì la ‘base’ a sinistra, ma rischia di far perdere consenso al ‘centro’, ossia nel bacino elettorale più ampio e conteso da tutto lo schieramento politico. E poi i Dem, come tutti i partiti, devono anche fare i conti con i posti a disposizione. Un candidato in più, potrebbe soffiare il seggio a qualche nome di riguardo, causando problemi a cascata sul territorio. Meglio non rischiare. Una premura che evidentemente AVS non ha. Del resto, non è un partito, ma un cartello elettorale. Utile appunto a superare le soglie di sbarramento e portare a casa seggi per esponenti di formazioni (i Verdi e Sinistra italiana) che da sole non andrebbero da nessuna parte.
Colpo di genio e/o boomerang?
La trovata di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni potrebbe essere un colpo di genio o un boomerang clamoroso. E anche entrambe le cose insieme. Mi spiego. Da mesi l’italiana detenuta in Ungheria è al centro dell’attenzione mediatica. È agli arresti da oltre un anno, ma il suo caso è salito agli onori delle cronache solo dopo che i TG hanno trasmesso le immagini dove appare in un’aula di tribunale con le manette a mani e piedi. Un fatto sgradevole e lontano da quello che dovrebbe essere un modo civile per trattare chi è in attesa di giudizio. Scene simili si vedono in molti contesti, ma qui siamo nell’Ungheria governata dal conservatore Viktor Orban, bollato da molti (a sinistra) come ‘fascista’. E per quanto anche qui esista la separazione dei poteri, per i progressisti fare 2+2 è stato un attimo.
Effetto calamita
La maestra lombarda è dunque diventata un ‘simbolo’. Tutti sanno chi è. E molti la considerano una vittima. Se eletta – in virtù dell’immunità parlamentare – uscirà subito di cella. Questo è il colpo di genio: AVS viene data poco sotto lo sbarramento del 4%. Se grazie a questo nome così ‘forte’ anche solo una piccola parte dell’elettorato Pd si spostasse, è fatta. Non è infatti un caso che per lei sarebbe pronto addirittura il posto da capolista nel collegio del Nord-Ovest, uno di quelli più grandi come numero di votanti. Massima visibilità dove ci sono più elettori.
Non aiuta
Specularmente, qual ora invece l’effetto traino fosse sotto le aspettative. O se comunque AVS non riuscisse a ottenere seggi all’Assise UE, a farne le spese sarebbe proprio la Salis, che non solo resterebbe in galera ma avrebbe addosso anche quella “eccessiva politicizzazione” del suo caso che – come ha osservato anche la Premier Giorgia Meloni – “non aiuta”.
Precipitevolissimevolmente
Potrebbe però esserci anche una terza ipotesi, perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Anche alle ultime politiche AVS aveva puntato su un nome pescato dalla ‘società civile’. Qualcuno sovraesposto politicamente, portato in palmo di mano da Tv e giornali. Si chiamava Aboubakar Soumahoro. È entrato a Montecitorio sgambettando su un paio di vistosi stivali da lavoro nei campi guadagnandosi le prime pagine di quotidiani e riviste. Ma la sua gloria di paladino degli oppressi si è presto sgretolata sotto il peso dello scandalo che ha travolto il suo entourage familiare, accusato proprio di sfruttare e lucrare sulla pelle degli immigrati più fragili. E tanto quanto rapidamente è stato idolatrato, altrettanto precipitevolissimevolmente è stato scaricato e dimenticato. Chi scrive è garantista e fino a condanna definitiva tutti sono innocenti. Ma sulla Salis pende un’accusa molto grave e se diventare deputata europea le consentirebbe subito di uscire dal carcere, non è detto che il suo processo sia destinato a fermarsi. La competente commissione dell’Europarlamento potrebbe infatti concedere l’autorizzazione a procedere. Una eventuale condanna la lascerebbe libera, ma potrebbe finire addosso a chi ha voluto candidarla.
Enzo, la vittima. Bobby, l’idealista. Toni, il furbo
Sono tanti e variegati i precedenti che hanno visto dei detenuti candidati ed eletti nelle istituzioni per consentire loro di uscire dal carcere. Ne ricordo sommariamente tre. Il più noto, è certamente quello di Enzo Tortora. Nel 1984 venne candidato a Strasburgo dal Partito radicale che contestava le accuse di camorra a suo carico perché costruite solo sulla base delle testimonianze di pentiti. Il popolare volto della tv fu eletto e liberato dai domiciliari per via dell’immunità immediatamente acquisita, ma fu lui stesso a chiedere al Parlamento europeo di concedere l’autorizzazione a procedere che lo portò alla condanna e all’assoluzione in appello. Altro caso è quello di Toni Negri, accusato di essere uno degli ideologi del terrorismo comunista, eletto alla Camera sempre sotto le insegne della formazione di Marco Pannella. Usci dal carcere, ma più che allo scranno romano pensò a fuggire in Francia prima che i colleghi deputati potessero revocargli l’immunità. Storie, non solo italiane. Il 9 aprile 1981 il politico e volontario della P-IRA Bobby Sands, venne eletto deputato del Parlamento inglese mentre si trovava detenuto nel carcere di Long Kesh. Non mise mai piede a Westminster, morì il 5 maggio 1981 in cella per le conseguenze di uno sciopero della fame condotto a oltranza come forma di protesta contro il regime carcerario cui erano sottoposti i detenuti repubblicani irlandesi. Il Governo del Regno Unito cambiò la legge poco dopo, introducendo il Representation of the People Act. Questo proibiva ai detenuti di partecipare alle elezioni, e richiedeva un periodo di cinque anni dal termine della pena, prima che un ex detenuto potesse candidarsi.
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