Esiste ancora la separazione dei poteri?

La separazione tra i poteri dello Stato – esecutivo, giudiziario e legislativo – ha costituito, sin dalla sua teorizzazione ad opera di Montesquieu, il cuore dello Stato costituzionale. Insieme alla tutela dei diritti fondamentali, espressamente sanciti dalla nostra Costituzione, rappresenta la garanzia per la tenuta dell’assetto della Nazione e impedisce che la democrazia degeneri in autocrazia. Già lo storico greco Polibio aveva brillantemente individuato le forme di governo “buone”, sostenendo, con la teoria dell’anakyklosis (anaciclosi, ovvero l’evoluzione ciclica dei regimi politici), che ciascuna di queste fosse ontologicamente destinata a trasformarsi nella corrispondente forma “cattiva”: monarchia in tirannide; aristocrazia in oligarchia; democrazia in oclocrazia.

La riforma Nordio e le critiche della Magistratura

Riferendoci alla situazione odierna, ha ricevuto molte critiche la riforma voluta dal Guardasigilli Carlo Nordio, che si pone come obiettivo, tra gli altri, di salvaguardare un principio costituzionalmente sancito: il garantismo. È, infatti, in questa direzione che si muove l’intero impianto riformistico voluto dall’ex Procuratore di Venezia. Paradossalmente, oltre ai partiti di opposizione, a esprimere le maggiori critiche a questa riforma e al Governo che l’ha proposta è stata l’Associazione nazionale dei magistrati, che ha deciso di influenzare l’iter legislativo, schierandosi apertamente in modo critico sulla normativa proposta. Una prerogativa che non gli spetta, come non spetta a nessun altro se non al Parlamento che, come previsto dalla Costituzione, è l’unico titolare del potere legislativo. 

La magistratura negli ultimi anni ci ha abituati a continue ingerenze nelle vicende politiche a tutti i livelli, da quello nazionale a quello regionale. Sono noti alle cronache numerosi avvisi di garanzia ricevuti da candidati politici a pochi giorni dalla tornata elettorale. Se fosse solo questo – e sarebbe comunque grave –, si potrebbe comunque pensare che si tratta di un diritto-dovere riconosciuto ai magistrati che, come da mandato costituzionale, devono garantire il rispetto della legge, perseguendo le condotte penalmente rilevanti. Ma non c’è solo questo.

L’abuso d’ufficio: un reato più indagato che punito

Ciò che ha suscitato le maggiori critiche verso la riforma Nordio è stata la previsione di abolizione del reato di abuso d’ufficio (ex art. 323 c.p.) ed è alquanto strano, se si considerano i dati del Ministero della Giustizia. Quest’ultimo, infatti, ha pubblicato analiticamente il numero di sentenze di condanna che sono state pronunciate dai giudici in seguito alle indagini per il reato di cui sopra: meno di trenta su un totale di circa cinquemila soggetti imputati. Si sta seriamente contestando la riforma perché prevede l’abolizione di un illecito penalmente perseguibile, per il quale viene poi realmente condannato solamente lo 0,6% degli imputati? Suona assurdo, ma in uno Stato in cui il potere giudiziario fa costantemente politica è del tutto normale.

Come tornare ad una reale separazione dei poteri?

E allora qual è la soluzione? Come arginare questo problema? Sicuramente prevedendo un progetto di riforma dell’intero sistema giudiziario e una spoliticizzazione del potere giudiziario. Un primo passo può essere l’introduzione di una valutazione comportamentale dei magistrati, come immaginata dal ministro Nordio, mediante test psico-attitudinali. Chissà che magari non si possa così realmente recuperare quel principio montesqueiano della separazione dei poteri, a mio avviso, ormai smarrito.

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